Commento a le “Lettere a un giovane poeta” R.M.Rilke – 2

Primo Piano 4
 

Mese: Gennaio
Anno: 2010

Articolo: 2

“Lettere a un giovane poeta”


“Arte come necessità 1″


La prima epistola – parte prima

“Morireste se vi fosse vietato di scrivere?” Una domanda nuda e cruda che irrompe nel breve ruscello di parole di questa prima epistola che ci accingiamo finalmente a raccontare e che ne contiene, forse, il significato più pieno. Ancora una volta dunque, nell’accingerci al difficile compito di fornire un’interpretazione delle lettere dell’autore praghese (una delle innumerevoli, in quanto, come dicemmo, tanto vasti sarebbero gli sviluppi possibili dal testo), ritroviamo come impellente la domanda più sottile, che scava più a fondo alla ricerca delle nostre intime motivazioni: è fondamentale per noi svolgere quell’attività, compiere quell’azione?
Lo scorso numero parlammo abbondantemente di “vocazione” e “vocazioni”. Come risulterà evidente sempre di più, è questo un tema che non possiamo eludere quando ci avviciniamo ad un testo di tale fatta e, a tal ragione, anche questa volta dovremo, indirettamente ricorrervi. Ma partiamo dal capo. Rilke, il nostro autore, ringrazia il “giovane poeta”, quel Franz Xaver Kappus di cui dicemmo, facilmente accostabile a “noi lettori” tutti nell’atto di recepire l’insegnamento del maestro, con poche ed essenziali parole. Subito però, quasi al principio stesso di questa lettera scritta il 17 febbraio 1903, l’autore fa una considerazione che può subito indurci a riflettere:

“Non entrerò nella maniera dei vostri versi, essendomi estranea ogni preoccupazione critica. Del resto, per afferrare un’opera d’arte, non c’è niente di peggio delle parole della critica. Esse conducono solo a malintesi più o meno felici”

Il rilievo di quest’affermazione potrebbe in un primo momento sfuggirci: come mai un autore, che si è certo espresso sovente fungendo da critico in diverse occasioni (quanto meno di se stesso), sottrae improvvisamente alla “critica” genericamente intesa tutta questa importanza? In realtà Rilke, come vedremo, è perfettamente coerente da questo punto di vista: la poesia non la fa la critica (come invece sovente accade ed è convinzione comune in numerosi ambienti letterari). Anzi, la stessa esegesi operata dagli addetti ai lavori rischia di divenire una faticosa copertura, una pesante sovrastruttura. Il perché però emerge in particolar modo dal seguito, come possiamo leggere:

“Le cose non sono tutte da prendere o da dire, come si vorrebbe far credere. Quasi tutto quello che avviene è inesprimibile e si compie in una regione invulnerata della parola” .

Queste parole, a nostro avviso, non sono di facile applicazione. Anzi, sorge il problema di discernere cosa vada detto e cosa invece non vada detto. Interessante sarebbe riflettere anche sul costume ormai invalso di dire “quanto più” della propria vita, delle proprie idee, dei propri sentimenti (in particolar modo, come è facilmente riscontrabile adesso, sui social networks) privandosi della privacy e regalando i nostri dati sensibili, con rischi che spesso non immaginiamo (e la normazione recente, sempre più attenta sulla materia, ha dimostrato di esserne consapevole). Tralasciando il mondo del diritto e penetrando in queste parole tuonanti di senso, molto forte è il riferimento, che mostra un Rilke assai ferrato sulla materia, all’ineffabilità del “moto incessante prodotto dell’Io”. Esisterebbe una regione dello Spirito, anzi, della “parola” (qui pienamente sacralizzata, come in origine le era proprio – si pensi al mondo ebraico e alla Cabala – ) del tutto inaccessibile, non solo per chi non tocca generalmente la parola con le dita come potrebbe fare uno scrittore, ma proprio per lui, per un poeta (ed uno dei più grandi…) capace di raggiungere le massime vette espressive servendosi proprio del mezzo della “voce in versi”.
Seguono alcune righe destinate ai componimenti che Kappus aveva inviato a Rilke che fanno da ponte per condurci lì dove è il cuore del testo stesso.

“Mi domandate se i vostri versi sono buoni. Lo domandate a me. Prima lo avete già domandato ad altri. Li inviate alle riviste. Li confrontate con altre poesie, e vi allarmate se certe redazioni rifiutano i vostri tentativi poetici.
Ora, poiché mi avete autorizzato a consigliarvi, vi chiedo di rinunziare a tutto questo. Voi guardate all’esterno, ed è appunto questo che ora non dovreste fare.
Nessuno può darvi consiglio o aiuto, nessuno. Non v’è che un mezzo.
Entrate dentro di voi. Interrogatevi sul motivo che vi intima a scrivere;
verificate se esso protende le radici nel punto più profondo del vostro cuore. Confessate a voi stesso: morireste, se vi fosse vietato di scrivere?”

È  una risposta molto soggettiva, caricata semanticamente da quel “confessate” veramente intraducibile e inspiegabile. Una risposta che ognuno di noi sente diversa, per qualsiasi diversa attività presa in considerazione.

Questo soprattutto domandatevi, nell’ora più quieta della vostra notte: devo scrivere?Frugate dentro di voi alla ricerca di una profonda risposta. E se sarà di assenso, se voi potrete affrontare con un forte e semplice «io devo» questa grave domanda, allora costruite la vostra vita secondo questa necessità. La vostra vita, fin dentro la sua ora più indifferente e misera, deve farsi insegna
e testimone di questa urgenza.

 

Mario De Rosa

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